Mi trovo a giocare al dottore con mia figlia e mi accorgo che la invito a chiedere al paziente-tartaruga come mai ha tutto questo mal di pancia. Ed io, in quanto primaria del reparto “pronto soccorso pupazzi”, suggerisco sempre alla mia bimba-specializzanda di osservare il cliente in tutti i suoi aspetti, cercando di capire perché ha questo dolore, ponendo domande, senza essere frettolosa. Insomma, il semplice bacino con cerotto non lo tollero. Il cerotto soprattutto. Tappare la ferita e pensare che il male si sia risolto in questo modo. La trovo un’idiozia. Eppure mi guardo attorno e vedo molti genitori che infilano il ciuccio nella bocca del neonato per estinguerne immediatamente il pianto senza prima cercare altri modi di consolazione e, a volte, senza nemmeno provare a comprendere la motivazione del malessere. E troppo spesso sento adulti che, al cadere a terra di un bambino, prontamente esordiscono con un “Amore, non è successo niente! Non è nulla!”, piuttosto che abbracciare il bambino, guardarlo negli occhi, consolarlo, capire cosa è accaduto.
A volte ho l’impressione di vivere all’interno di una comunità che gira gli occhi di fronte al dolore, senza affrontarlo e cercando di portare i bambini lontano dalla comprensione della sofferenza. Non trovo attorno a me il desiderio di insegnare ai piccoli che il malessere può essere un segnale, da ascoltare.
Il distrarsi su qualcos’altro credo possa essere una delle strategie che una persona può mettere in atto nel momento in cui soffre. Credo tuttavia che anche l’accoglienza del dolore, il guardarlo ed abbracciarlo piuttosto che allontanarlo siano strumenti essenziali per crescere una persona in equilibrio. Come durante un travaglio di parto, nel quale le doglie indicano la strada alla donna, la guidano attraverso le posizioni migliori da assumere per diminuire il rischio di complicanze, la portano in ascolto di se stessa e del suo bambino.
Vedo attorno a me troppe persone che pensano che la febbre vada curata con un antipiretico oltre i 38°; troppi medici che prescrivono antibiotici con leggerezza senza ricercare la causa della sofferenza del paziente; troppi pediatri che prescrivono il “latte” formulato senza chiedersi quale possa essere il motivo della scarsa produzione del latte materno.
E dunque mi chiedo: fra qualche decennio l’umanità sarà ancora capace di gestire un’influenza senza l’aiuto di farmaci? Sarà in grado di fare fronte ad un dispiacere, un lutto senza essere in preda ad una sensazione di panico? E le persone saranno capaci di fermarsi, di portare l’attenzione su se stessi ed interrogarsi sulla propria condizione?
Leggo il dolore, sia esso fisico oppure emotivo, sempre come un segnale, una bandierina che si alza e che costringe a centrarsi, a riflettere su se stessi. E ritengo che questo atteggiamento non succube bensì critico nei confronti della sofferenza sia una strada che, se seguita, può portare ad una trasformazione e ad una situazione di maggior benessere.
Come sto? Cosa sto facendo? Dove sto andando?
Quali sono i miei ritmi? Come sto mangiando?
Dove sto mettendo l’amore per la mia famiglia?
Dove sto investendo le mie energie ed il mio tempo?
E desidero insegnare alle mie figlie che assaporando prima il dolore e la fatica, sarà poi possibile apprezzare maggiormente il benessere e la serenità; solamente interrogandosi sul significato della sofferenza, è possibile percorrere quella strada di profonda armonia e felicità che la Natura ha per noi previsto.